Eccomi qui al St. Camillus Hospital di Karungu (Kenia), sulle sponde del lago Vittoria in questo posto dimenticato dagli uomini ma forse non da Dio dove, tutto è esagerato sia nell’incredibile bellezza di una natura strepitosa sia nell’espressione della povertà e malattia.
Dopo la mia prima esperienza di un mese nel luglio dello scorso anno, avevo deciso che ci dovevo assolutamente tornare per saldare un conto rimasto in sospeso: vedere l’Africa non da turista ma da medico. Questo posto mi aveva stregato e dovevo capire fino in fondo cosa mi richiamava qui in questa terra calda e misteriosa: qualcosa che non appariva ma che urlava dentro come un imperativo categorico. Così ho chiesto aspettativa per sei mesi dal mio lavoro di specialista cardiologa e ai primi di marzo sono partita per l’Africa.
I primi mesi sono stati molto difficili da parecchi punti di vista, mi sono trovata a fare la “tuttologa” in un paese dove c’è di tutto come patologia e praticamente nulla come medicina, quindi mi sono messa a studiare accantonando tutte, o quasi, le mie conoscenze mediche qui praticamente inutili ed ho imparato l’umiltà: sapere di non sapere, volere ma non potere, confrontandomi costantemente con la mia inadeguatezza di conoscenza e di mezzi. La lingua è stato l’altro problema da affrontare, conoscevo un inglese poco più che scolastico e qui medici e infermieri parlano o inglese o il dhluo (lingua locale), e molto spesso non capivo proprio nulla, quindi ancora prima di orientarmi sulla patologia dei pazienti e conoscere la terapia adeguata e disponibile, dovevo capire cosa dicevano. Per non parlare poi delle difficoltà diagnostiche (gli strumenti disponibili sono limitati) e terapeutiche (mancano talvolta anche i farmaci essenziali!).
Così è cominciata la mia avventura, affidata ad un reparto di medicina generale, ufficialmente investita di un ruolo molto difficile da gestire anche emotivamente: l’età media dei nostri pazienti è di 25-30 anni il peso di 35-40kg (ma ne ho visti anche di 23kg!), l’HIV impera e in queste persone private delle difese immunitarie, qualunque malattia diventa difficile da trattare, impossibile da curare. La malaria spesso qui si presenta come malaria cerebrale, la tubercolosi si mangia gran parte dei polmoni e non solo, e le infezioni, per noi spesso banali e facili da trattare, fanno a gara a chi fa più danni e devasta più organi o porta più velocemente alla morte.
Ingoio saliva e lacrime nell’assistere impotente al manifestarsi dell’AIDS sotto forma di tumore che trasforma la pelle in una tavolozza di colori con bubboni e secrezioni maleodoranti che crescono come funghi, o nell’ascoltare le urla di Rose 23 anni, che dopo aver partorito un altro figlio morto, ha deciso di percorrere la protettiva via della follia (aiutata in questo da una encefalite da HIV), o nel guardare gli occhi ormai spenti anche di speranza di Leonida 40 anni (e 30kg!), divorata dall’AIDS, che per mesi ha aspettato di iniziare il trattamento con dei farmaci che le avrebbero regalato almeno l’illusione di sconfiggere il virus e di vedere crescere i suoi 3 figli, ma i farmaci non erano disponibili, ed ora che lo sono, per lei è ormai troppo tardi.
Come farò mai a dimenticare gli occhi di Michael 35 anni, ovviamente anche lui HIV positivo, che invocano aiuto mentre l’acqua che ha invaso i polmoni lo sta soffocando nonostante tutte le nostre cure rese vane da ripetute infezioni da tubercolosi e non solo, e con un filo di voce mi dice “io mi fido di te”?
Malaria, AIDS ed infezioni varie divorano anche il sangue e provocano forme di anemia ritenute normalmente incompatibili con la vita, la disponibilità per le sacche di sangue è limitata, donatori ce ne sono pochi e spesso non lo possono donare perché anch’essi HIV positivi. Chinino e flebo non si negano mai a nessuno e scorrono a fiumi in vene difficilmente trovabili di gente con vomito incoercibile o diarree devastanti, già consumati dalla malnutrizione. Ho imparato a fare l’ecografia, sia pur approssimativamente, quel tanto da orientarmi nel mare magnum dell’addome fonte inesauribile di milze e fegati che qui raggiungono dimensioni spaventose, a ciò contribuiscono le intossicazioni da “erbe” con cui a casa vengono trattati i malati da praticoni locali perché questa “medicina” costa poco ma in compenso uccide molto.
Spesso mi vengono proposti casi ritenuti di competenza cardiologica perché alla radiografia del torace emerge un cuore ingrandito, ma altrettanto spesso la diagnosi è da ricondurre ai danni che fa la tubercolosi che intacca qualunque organo compreso il cuore, qualche volta invece, soprattutto in bambini, sotto c’è una cardiopatia congenita in stadio troppo avanzato e comunque inoperabile per il costo troppo elevato dell’intervento che potrebbe essere fatto solo a Nairobi, a 8-10 ore di macchina da qui! In una settimana ho visto 2 ragazzini morire senza poter fare per loro assolutamente nulla se non una bella diagnosi!!!
Qui esiste come dato di fatto la poligamia e grazie ad essa ho assistito a cose strane (2 mogli di uno stesso marito che partoriscono in ospedale lo stesso giorno) o drammatiche (una moglie ha intossicato con un diserbante il figlio maschio nato dalla seconda moglie di suo marito, risultato…un bimbo di sette giorni morto dopo tremenda agonia).
Ma se è vero tutto questo, è pure vero che non potrò mai dimenticare il sorriso di Karen col quale mi ha accolto una mattina dopo una settimana di coma provocato da una delle tante infezioni “banali” o Amos a cui abbiamo restituito la forza di giocare a pallone dopo un’infezione che gli aveva danneggiato il cuore o Alice che stava per essere portata via dalla malaria, ma per una battaglia vinta (cosa che dovrebbe essere la regola), ancora troppe sono quelle perse!
Una cosa mi ha lasciata perplessa fin dal primo giorno: l’assenza totale di lacrime, qui non si piange né per commozione né per dolore, neppure di fronte alla morte, tutto viene accettato come ineluttabile, non chiedono, aspettano e accolgono qualunque “sentenza” quasi con indifferenza o incoscienza.
Quanti ricordi da archiviare assieme alle sensazioni contrastanti, alla rabbia e all’impotenza, all’urgenza di fare ma non riuscire a farlo bene, al volere (ma non potere!) dare una chance a questa gente che sa morire ma non ha ancora imparato a vivere, senza passato e con un futuro incerto, in un presente scomodo che non concede speranza, in una terra dolente e senza tempo dove nulla è cambiato da sempre e forse per sempre.
Potrei andare avanti all’infinito per cercare di mettere l’Africa o il mio vissuto di essa in pagine e ancora non avrei detto niente, ma so solo che amo smisuratamente questa terra e che in questi occhi neri come l’ebano, profondi come il mare e vuoti di lacrime sto trovando il coraggio di vivere. La sua bellezza sta proprio nell’essere così selvaggia e indomabile. La vorrei un po’ meno selvaggia e più domabile, forse meno bella ma più viva o almeno con più possibilità di vita, anche se non sarebbe più la mia Africa.
Antonella Levi Minzi