Esperienza di volontariato al Dala Kiye
Vivere l’esperienza di Karungu, del Dala Kiye, assume un significato diverso per ciascuno tra coloro che l’hanno vissuta. Ed io vorrei rendervi partecipi del mio vissuto, della mia esperienza che è del tutto intima e personale ma nella quale, qualcuno che ha avuto il privilegio di soggiornare in quel luogo e condividere dei momenti con i bambini, forse potrà riconoscersi in alcuni tratti.
L’Africa in me nasce come “sogno” e sin dalla tenera età ho sempre detto che avrei voluto diventare missionaria laica in Africa. Ma si sa che troppo spesso tendiamo ad accantonare i nostri sogni e per comodità ci lasciamo condizionare dalle presunte certezze di una vita che non contempla il coraggio di seguire sino in fondo le proprie profonde aspirazioni. Almeno sinché non accade qualcosa che ti riporta a credere di nuovo al tuo sogno. Ed allora ti rendi conto che la realizzazione di un sogno porta in sé la sua eterna non compiutezza: esso si inserisce in un processo che non si esaurisce, ma ti spalanca verso nuove possibilità, obiettivi più ampi e profondi, facendo in modo che il sogno non venga mai portato del tutto a compimento ma si trasformi ogni volta in qualcosa di ulteriore da realizzare.
Più che dei loro sorrisi e della loro straordinaria bellezza, che chiunque vi si è accostato è in grado di percepire, vorrei dirvi di quanto essi possano essere dei grandi mentori, maestri per noi: hanno dentro sé una forza d’animo ed una maturità che per noi qui è inimmaginabile e irraggiungibile. Essi hanno perso i genitori in tenerissima età e, prima di giungere al centro, molti di loro hanno lottato tra la vita e la morte in un letto d’ospedale, sono stati sballottati da un parente all’altro, da una capanna all’altra, da una strada polverosa all’altra. Spesso sono stati trascurati, non hanno ricevuto cure, cibo, attenzioni, medicine, amore. Hanno sofferto nel corpo e nello spirito, hanno la piena consapevolezza di essere sieropositivi. Eppure mai ho potuto incontrare bambini così maturi e consapevoli, con tanta voglia di vivere, bambini ricchi d’amore che ti insegnano ogni giorno una grande lezione di vita.
Karungu, il Dala Kiye è per me luogo ove è possibile “porsi al servizio” degli altri come atteggiamento di fondo, in modo pieno e totale, che permette di vivere un messaggio di fede che trasforma le parole in fatti concreti. Senza la pretesa di esserne fedele interprete ma nell’umile tentativo di essere strumento d’amore che riesce a trasformare la realtà. Trasformando il profondo sentimento d’amore nei loro confronti in azioni e comportamenti che siano volti al loro bene.
L’essere ‘prossimo’ a loro, anche nel significato di prossimità, vicinanza, per riuscire a coglierne gli aspetti meno evidenti, più reconditi. Imparare a riconoscerli per nome e considerarli entità uniche, distinte, con una propria individualità, non solo come facenti parte del gruppo dei children, esattamente come fanno loro, riconoscendoti subito e chiamandoti con il tuo nome.
Costruire, giorno per giorno, un rapporto fatto di vera fiducia, che è tutt’altro che scontata. Essa deve infatti esser conquistata a piccoli passi perché i bambini si aspettano che tu non gli menta, essi si creano delle aspettative nei tuoi confronti e tu sei chiamato a non deluderle. La sofferenza e le perdite che hanno già ampiamente sperimentato nella loro vita li portano a misurare l’altro, a prendere inizialmente delle distanze per poter verificare se è davvero degno di fiducia, se è veramente attento alle loro esigenze, se mosso da genuino interesse e amore nei loro confronti. E noi gli dobbiamo rispetto. Ma se le prove vengono superate, si può davvero creare un clima di profondo affetto, di fiducia reciproca, di complicità, di intimità quasi familiare. Ed è grazie a questa intimità che si creano dei riti che consolidano sempre di più i rapporti.
Il sedersi con loro a tavola per la cena diventa allora un momento di profonda intimità e condivisione, dove loro si sentono ascoltati, liberi di esprimere i pareri sulle attività svolte durante la giornata, di esternare i loro bisogni, a volte di natura molto pratica, dove ci si lascia anche andare a farsi reciprocamente degli scherzi, dove molti di loro ti offrono spontaneamente il cibo dal loro piatto o un pezzo del frutto che stanno mangiando.
È un segno di profonda accettazione nei tuoi confronti quando, offrendoti il loro cibo, ti dicono “Karibu, Monica”, sei la benvenuta qui. Riescono a percepirti come una di loro, grazie al fatto che ti sei seduta più volte in mezzo a loro, hai mangiato il loro stesso cibo e lo hai fatto usando le mani, come fanno loro, cercando così di abbattere qualsiasi barriera culturale e questi gesti che tu hai compiuto, questa attenzione che tu hai posto nei loro confronti è compresa e molto apprezzata.
Così accade ogni giorno quando svolgi con loro le attività creative che con cura hai organizzato per mesi da casa, quando si divertono con te a fare lavoretti con la carta, come le maschere, quando ti spiano di nascosto mentre organizzi la caccia al tesoro, che è una delle loro passioni, dopo il calcio.
Ma la maggior intimità la vivi la sera, quando ti chiedono di condividere con loro i momenti più importanti, quando ogni sera alle 7 si siedono attorno al tavolo nelle loro casette ed assumono con grande cura i loro antiretrovirali, quando ti chiedono di passare con loro la serata, leggendo favole, ballando e cantando o facendo altre attività e ti chiedono di sederti in mezzo a loro, per terra, durante la preghiera di gruppo, prima di andare a letto. Loro desiderano condividere con te tutti i momenti della giornata, dalla mattina alla sera e tu ti senti felice ed onorata per questo.
E così anche il rito dell’ultimo giorno, prima della tua partenza per l’Italia, assume un significato profondo e intimo.
L’ultima sera la si trascorre tutti insieme a mangiare, poi ci si trova in una delle casette ed insieme si canta, si balla, si leggono favole e poi, uno ad uno li accompagni nelle loro camerette e, con il bacio della buonanotte, dici: ci vediamo presto, torno appena possibile.
Grazie alla fiducia che loro ripongono in te, essi sanno che non è mai un addio, ma solo un arrivederci. Perché hanno imparato che dietro alle tue parole “I will come back as soon as I can” c’è davvero tutto il tuo impegno per tornare da loro il più presto possibile.
Lo sanno, perché ogni giorno glielo dimostri, con la tua presenza accanto a loro anche quando sei lontano, quando ricevono da te le fiabe da leggere la sera, i tuoi messaggi, le tue lettere, dove gli racconti un po’ della vita che si vive in Italia, dove cerchi con impegno le parole giuste perché non si crei una dipendenza tra voi ma solo un grande affetto, che si rinnova ad ogni incontro, ed imparino ad apprezzare quanto ricevono vivendo al Dala Kiye .
La consapevolezza di essere amati anche da chi è lontano riesce ad infondere in loro una grande gioia e serenità. Oltre al ‘miracolo’ della trasformazione fisica, che si può vedere in loro a pochi mesi dall’arrivo al Dala Kiye, in seguito alle cure mediche, agli antiretrovirali che assumono regolarmente, all’alta qualità del cibo con cui possono nutrirsi, all’ambiente sano e protetto, alle attenzioni che ricevono, è la certezza di essere veramente amati che contribuisce al loro benessere.
Anche il momento dei saluti, degli abbracci, delle strette di mano, delle lacrime è condiviso da tutti intimamente e con grande affetto. Loro sanno che anche tu, come loro, stai soffrendo per la partenza, ma sanno che sapranno aspettare il prossimo tuo ritorno, proprio come dovrai fare tu, giorno dopo giorno.
A loro tutto il mio amore, la mia gratitudine ed il mio impegno per dare un senso, o meglio, il vero senso.
Monica Marinoni